Come già noto da recenti articoli di stampa, sull’industria dei medical devices, già alle prese con il rincaro delle materie prime, l’inflazione e l’instabilità geopolitica, pesa una tassa da circa 2,2 miliardi di euro e conseguentemente un rischio per circa 112 mila posti di lavoro, che potrebbe avere ricadute sulle forniture agli ospedali, nonché impatti sulla salute dei cittadini.

Abbandonata l’idea di intervenire all’interno della legge di Bilancio, la prima riposta da parte del governo sulla questione è stata quella di prorogare la scadenza dei pagamenti dalle aziende alle Regioni, prevista per gennaio, al 30 aprile. L’11 gennaio scorso, infatti, il Consiglio dei Ministri, su proposta del presidente, del ministro dell’Economia e delle Finanze e del ministro della Salute, ha approvato il decreto legge numero 4, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nella stessa data, che introduce misure urgenti in materia di procedure di ripiano per il superamento del tetto di spesa per i dispositivi medici.

La proroga dei termini è senza dubbio una significativa boccata di ossigeno per tante realtà imprenditoriali a rischio fallimento, ma serve davvero a poco per la soluzione del problema.

Lo strumento del payback nasce nel 2011. Successivamente, l’articolo 9-ter del decreto legge 78/2015 voluto dall’allora governo Renzi (convertito poi nella legge 125/2015) ha previsto che una parte dello sforamento del tetto per l’acquisto dei dispositivi medici venisse posto a carico delle aziende fornitrici. Il comma 9 dell’articolo 9-ter del decreto legge 78/2015 specifica che “ciascuna azienda fornitrice concorre alla predette quote di ripiano in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisto di dispositivi medici del Servizio sanitario regionale”. La norma, inoltre, individua delle soglie percentuali di quanto posto a carico delle aziende fornitrici in questa misura: 40% per l’anno 2015, 45% per il 2016 e 50% a partire dal 2017. La legge n. 125/2015, che definì i tetti di spesa regionali, nacque in un momento di richiesta da parte della Commissione europea di ridurre la spesa pubblica e di grave crisi finanziaria delle Regioni, in cui quasi tutte erano in deficit o sotto piano di rientro e ne conseguì un’operazione di tagli lineari.

Una delle motivazioni principali che hanno portato ad attuare questa misura dopo otto anni, sta nella necessità di ripianare gli aumenti della spesa sanitaria delle Regioni legati alla gestione della pandemia. Per dare un occhio anche ai numeri, se si sommano le spese dei quattro anni in questione (utilizzando un’elaborazione del centro studi di Confindustria dispositivi medici. Si veda la tabella di seguito), emerge come nel periodo considerato Toscana (853.362,4 euro), Puglia (531.631,1 euro) e Veneto (498.904,2 euro) sono le Regioni che hanno sforato maggiormente i tetti di spesa a loro assegnati. Mentre, al contempo, le Regioni più “virtuose” sono state Campania (-90.401 euro), Calabria (-56.245,1) e Lazio (-39.266,9 euro), con la Lombardia che è tra le gli enti la cui spesa si avvicina di più al limite previsto (-17.775,9 euro).

Proprio in questi giorni, dal Salento è partito un importante ricorso che impugna, oltre ai provvedimenti sopra citati, la Determina Dirigenziale n. 10 del 12.12.2022 a firma del Direttore del Dipartimento Salute della Regione Puglia. Ricorso notificato a tutti i Ministeri competenti ed a tutte le Regioni e Province autonome d’Italia in quanto in ballo vi è anche la costituzionalità dell’impianto normativo.

Il ricorso, per conto di una nota azienda fornitrice salentina, è stato notificato ieri a cura dei legali incaricati Avv. Daniele Montinaro e Giovanni Calabro e verrà depositato nei prossimi giorni presso il TAR Lazio.